Incipit famosi, quali sono e chi li ha scritti?

Uno sguardo, un sorriso, un gesto: quel particolare che colpisce l’attenzione e attrae fino a voler conoscere un estraneo appena incontrato. Praticamente un incipit. Lo stesso meccanismo che si genera quando, leggendo le prime righe di un libro, sentiamo il desiderio di saperne di più, di addentrarci nella storia, continuando la lettura.
Si spiega, allora, perché sia tanto importante per uno scrittore trovare quella combinazione di parole che coinvolga e incuriosisca il lettore, convincendolo a proseguire.
Alcuni autori hanno dei piccoli rituali per trovare quella pagina iniziale, da cui prenderà corpo la loro creatura: Isabel Allende comincia a scrivere i propri libri sempre lo stesso giorno dell’anno, l’otto Gennaio; Stephen King cerca il suo paragrafo di apertura a letto, sdraiato nell’oscurità, prima di addormentarsi: per settimane, mesi, a volte anni, scrive e riscrive finché non è soddisfatto e, solo dopo averlo trovato, si convince che il romanzo è pronto per essere scritto; Truman Capote, superstizioso, non cominciava mai a scrivere di venerdì.

Incipit famosi nella Storia

Nel corso della storia della letteratura, tuttavia, l’incipit non ha goduto sempre della considerazione che gli attribuiamo oggi. Nell’antichità, l’inizio di un’opera ripeteva di frequente formule fisse, richieste di ispirazione e omaggio alle Muse, che, come dice Calvino, custodivano la Memoria, perché raccontare era anche rammentare.

Cantami, o diva, del Pelide Achille”, inizia l’Iliade, “Narrami, o musa, dell’eroe multiforme” l’Odissea. In seguito, fino al Settecento, l’incipit poteva essere una dedica ai mecenati che proteggevano gli autori, un’invocazione al lettore oppure una lunga introduzione narrativa: in ogni caso, l’incipit non aveva ancora un ruolo centrale. Solo nell’Ottocento, con l’aumento della quantità di libri pubblicati e la concorrenza, gli scrittori ne capiscono l’importanza: un buon inizio serve da promessa per il lettore ed è un viatico verso l’editore che deciderà o meno di pubblicarlo. Nascono così gli incipit più famosi della storia della letteratura.

L’incipit per Calvino

Uno scrittore ha costruito un intero libro attraverso gli incipit, facendone il tema stesso del romanzo. “Se una notte d’inverno un viaggiatore” comincia in ogni capitolo una nuova narrazione di genere letterario diverso. Calvino, che ne è l’autore, dibatte ancora sull’argomento negli appunti rimasti incompiuti che diventeranno l’Appendice alle sue “Lezioni Americane”.

L’incipit è il momento della scelta, quello in cui uno scrittore dalla molteplicità delle storie possibili ne isola una e seleziona “qualcosa che ancora non esiste” dal “multiforme”. La stessa azione viene compiuta per il linguaggio: dei tanti stili che si hanno a disposizione, si dovrà decidere quello che si conviene a “dire ciò” che si vuole raccontare.

L’incipit è un distacco, un confine, che divide il fuori e il dentro, che segna l’ingresso da un mondo conosciuto, tangibile, ad uno completamente nuovo, da costruire, che è il “mondo verbale”. Per questo motivo, rappresenta per Calvino il “luogo letterario per eccellenza”, perché al contrario del mondo reale che è continuo, ogni opera letteraria è sancita da un inizio e da una fine.

Incipit famosi

Ci sono incipit famosi? Esiste quindi un criterio, uno schema ripetibile per convincere il lettore ad appassionarsi e proseguire oltre le prime battute?

“Chiamatemi Ismaele”.

A Herman Melville bastano due parole, per catapultarci in un’atmosfera carica di presagi e indurci a proseguire fra le pagine di “Moby Dick” e Albert Camus, in una riga, ci mostra l’animo indifferente e provocatore de “Lo Straniero”: “Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so”.
Antonio Tabucchi si affida a una formula, che ripeterà all’inizio di ogni capitolo: “Sostiene Pereira” e prosegue “di averlo conosciuto in un giorno d’estate. Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava”.

Se per Lev Tolstoj l’inizio di “Anna Karenina” è una specie di aforisma “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice lo è invece a modo suo”, David Herbert Lawrence ne “L’amante di Lady Chatterlay” spiega che “La nostra è un’epoca essenzialmente tragica, perciò ci rifiutiamo di viverla tragicamente”.

E poi c’era brutto tempo. Arrivava da un giorno all’altro, una volta passato l’autunno.” Ernest Hemingway in “Festa mobile” parte dal tempo come Bernard Malamud ne “Il commesso”: “Erano i primi di novembre e all’alba l’oscurità della notte durava ancora nella via, ma il vento, con meraviglia del negoziante, imperversava già”.

Psicologico Fedor Dostoevskij nelle “Memorie dal sottosuolo”: “Io sono una persona malata… sono una persona cattiva. Io sono uno che non ha niente di attraente.
Gabriel Garcìa Màrquez in molti suoi libri esordisce con un riferimento all’epilogo, come in “Cent’anni di solitudine”: “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”; un modo simile anche per Beppe Fenoglio ne “I ventitré giorni della città di Alba”: “Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944”.

È l’incipit che fa il libro?

Potremmo continuare a lungo a scrivere di incipit famosi o meno noti. Ma torniamo alla nostra domanda: esiste un legame fra incipit tanto diversi eppure tanto riusciti?
Ebbene, potremmo dire che ognuno racchiude in sé già la storia, ma senza svelarla: ci incuriosisce, ci lascia immaginare e genera tante domande (Chi? Come? Cosa? Quando? Perché?), a cui troveremo le risposte solo se proseguiremo la lettura.
Se nell’incipit la storia deve manifestare “tutta la sua energia”, come sostiene ancora una volta Calvino, allora ci piace considerare l’incipit come un piccolo big bang.

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